Irene Fornaciari nasce la Vigilia di Natale, in una famiglia dove la musica si respira come l’aria. Lei, timida, sogna di fare altro nella vita, ma il destino si sa, trova il modo per portarci dove vuole.
Oggi Irene si racconta con ironia e semplicità. Sì – sono la figlia di Zucchero – dice, ma il mio nome è Irene Fornaciari. Faccio musica perché fa parte di me, è il mio modo di stare nel mondo. Non sempre essere figli d’arte semplifica la vita; per un certo verso la rende più complicata. L’asticella viene posta in alto, perché il giudizio di solito è severo. Si è portati a pensare che si abbia la strada spianata, mentre spesso risulta ancora più in salita. Oggi sono serena, perché so di essere me stessa, di fare un mestiere che fa parte di me, scelto consapevolmente. Provo ammirazione e stima per il mio babbo che mi ha insegnato tanto. A lui il merito di avermi mostrato come la dedizione e la serietà nel lavoro siano importanti. Ho scelto di fare un percorso tutto mio, grata di quanto ho imparato alla “scuola Fornaciari”. Lui, con discrezione, osserva i miei passi con lo sguardo amorevole che solo un padre può avere.
Hai un nutrito album di ricordi: quali sono le “istantanee” che raccontano i tuoi passi nella musica?
La prima è quella del mio duetto d’esordio che ho fatto proprio con il mio babbo. Avevo quindici anni; ero in vacanza e papà mi chiese di raggiungerlo a Capri, dove stava lavorando. In quell’occasione mi chiese di registrare con lui “Karma stai Kalma” canzone prodotta dal grande Corrado Rustici. Tremavo tutta e se ne avessi avuto il coraggio, sarei fuggita. In quello studio di registrazione, ogni cosa era una novità, Corrado mi incoraggiò a essere naturale mettendomi a mio agio. La mia parte era in inglese. La cantai con una voce angelica ed eterea, dandole una mia personale interpretazione. Mio papà, inizialmente, non avrebbe voluto che la cantassi così ma, Corrado ne fu entusiasta e anche papà dovette ricredersi. Per me, riascoltare le nostre voci insieme, fu davvero una grande emozione.
Nella seconda istantanea, ci sono due persone che hanno fatto molto per me. Il primo è Giancarlo Golzi, batterista dei Matia Bazar, che è mancato, con mio grande dolore, nel 2015. All’esordio del Musical “I Dieci Comandamenti”, lui mi fece un “cazziatone” incredibile, destabilizzandomi. Aveva ragione; l’ansia aveva avuto la meglio e la mia performance era stata deludente. Fu come prendere uno schiaffo in piena faccia. Ottenne, però, il risultato voluto: ritornai sul palco con grinta e voglia di riscatto: – ecco l’Irene che ho scelto! – disse Giancarlo sorridendomi. Una lezione, la sua, che non posso dimenticare. Secondo, solo in ordine di tempo, Max Marcolini, il mio primo produttore. Lo conosco da sempre, lavorava e lavora ancora con mio papà. Lui mi ha guidata quando ho intrapreso, dopo il Musical, la carriera da solista. Sono cresciuta e ho fatto quattro dischi con lui, che è stato anche il mio chitarrista. Lui, musicista sopraffino, mi ha spronata a esplorare nuove sonorità e a intraprendere nuove esperienze. Un vero e proprio mentore.
Salomon Burke, due duetti e una gioia infinita. A lui va il merito di avermi insegnato con il suo sguardo, la bellezza del palcoscenico. Emozionata, quasi non potevo credere, di essere sul palco con un mostro sacro come lui. Eppure fece di tutto per farmi sentire a mio agio, guardandomi dritta negli occhi. Una vera magia; lui, seduto sul suo “trono” – non poteva già più camminare – ha diviso con me il palcoscenico, con la semplicità che solo i “grandi” sanno avere. Scolpiti nel cuore “Proud Mary” e “A change is gonna come” in un duetto indimenticabile per me.
Ho ricordi preziosi legati alle tante collaborazioni, quasi tutte inattese, ricche di sorprese e alle volte, di qualche goccia di “valeriana”. Sanremo mi ha vista duettare nel 2011 con Davide Van De Sfroos, in dialetto comasco: una vera e propria sfida vinta con successo e un discreto divertimento. Un incontro con la sensibilità di un uomo, apparentemente “ruvido”, che mi ha regalato “Grande mistero” e un’intesa speciale. Poi nel 2012, con Brian May e la grande Kerry Ellis. In questo caso è stata una telefonata di papà a dare l’idea a Brian, che è un amico di famiglia. Un artista del suo calibro non avrebbe mai accettato di duettare con me, senza farmi un attento provino. Volai a Londra a casa sua, dove aveva lo studio. Ricordo il palco montato nel suo salone e il mio terrore. Andai in bagno dove “tracannai” tutto il flacone di valeriana. Non saprò mai se a fare il miracolo sia stata quella o l’allineamento di tutti i pianeti favorevoli, ma andò bene alla prima. Ero convinta di fare una prova, invece abilmente lui stava registrando. Funzionò tutto: canti, controcanti e con la bravissima Kerry Ellis ci fu un feeling incredibile. Tra i ricordi che conservo gelosamente, c’è anche il biglietto da visita che Eddie Floyd mi diede dopo il nostro duetto nel 2011 in “Knock on Wood”.
L’ultimo, solo in ordine di tempo, il meraviglioso duetto con Elisa in “Amiche in Arena” del 2016, con “Luce”, brano scritto da papà. In quel periodo non ero in formissima; avevo sottoposto le mie corde vocali a un notevole stress. Elisa ha una voce incredibile e ho sempre utilizzato le sue canzoni, che sono lontane dal mio modo di fare musica, per fare esercizio. Se si riesce a cantare i suoi brani, significa che le corde vocali sono in perfetta forma! Per questo motivo ho voluto registrare un provino per farle sentire come sarebbe stata la mia resa. Elisa, fu dolcissima – andrà tutto bene, spacchiamo tutto! – disse. Ho impresso nella memoria l’attimo prima di uscire sul palco: lei mi prese la mano, senza aggiungere altro.
Tutti questi ricordi hanno in comune la dimostrazione di come i “grandi”, sappiano essere umili e in grado di far sentire al posto giusto chi, come me, ha avuto la fortuna di dividere il palco con loro. Ognuno di loro mi ha insegnato tanto.
Queste foto le ho raccolte in casa mia, in un angolo poco in vista. Questi ricordi sono preziosi e come tali, li conservo nel cuore.
(photo credit Marco Piraccini)