Quel testo giaceva da vent’anni nella libreria del suo studio ancora chiuso nel cellophane. Poi un richiamo improvviso e istintivo. Quindi, una lettura vorace e appassionata conclusasi con la piena consapevolezza che quell’opera di Arthur Miller fosse la scelta giusta da riproporre al pubblico. L’unica (e ultima) volta in cui “Vetri rotti” era stato rappresentato in Italia correva l’anno 1995 e a vestire i panni di Sylvia era stata Valeria Moriconi.
Elena Sofia Ricci, protagonista della pièce al Teatro Eliseo di Roma (spettacolo che le ha fatto conquistare il prestigioso Premio Flaiano nel 2018), è uno dei pochi esempi di artista autenticamente completa che il nostro paese possa vantare. Con eguale disinvoltura passa dal registro brillante a quello drammatico, sicura, convincente e carismatica in entrambe le situazioni. Frequenta il teatro, per l’appunto, regala share stratosferici a ogni fiction televisiva che la veda protagonista, i più apprezzati cineasti di casa nostra l’hanno voluta nelle loro pellicole: da Ozpetek a Sorrentino, a Pupi Avati.
Nell’opera diretta dalla mano magistrale di Armando Pugliese, la Ricci mette in scena il dramma fisico (un’improvvisa paralisi le blocca le gambe) e interiore di una donna ebrea, fortemente colpita dall’avanzare della furia nazista in Europa che devasta le vetrine dei negozi degli ebrei, ricoprendo le strade di cumuli di “vetri rotti”. Macerie e rovine come quelle che si affollano nella sua anima. Elena Sofia Ricci, davvero in stato di grazia, rende al meglio i tormenti di una donna intimamente dolente, una “Cassandra” dell’America degli anni Trenta che ha la sensibilità di intuire la catastrofe che di lì a poco avrebbe interessato il mondo intero.
“Certe volte ho la sensazione che sappia qualcosa, è come se fosse collegata a qualche filo che fa il giro del mondo, a qualche verità nei cui confronti gli altri sono ciechi”. Tutti voltano lo sguardo altrove, lei no. Lei che, anche tra le mura domestiche non conosce pace, né felicità. Non più almeno. Lei che ha provato ( e si è fatta tanto male) a raccogliere uno ad uno i vetri rotti di una vita, la sua, “data in elemosina, come un paio di monetine”. Interessanti e azzeccate le scelte stilistiche di Pugliese: ”Le undici scene che si susseguono senza soluzione di continuità ci hanno suggerito di intraprendere la strada di una sorta di montaggio cinematografico, come se il testo fosse il frutto di una sceneggiatura più che di un percorso di drammaturgia teatrale”.
A impreziosire la messa in scena, oltre al talento degli interpreti, ci pensano le musiche di Stefano Mainetti: un mix raffinato di evocazioni jazzistiche newyorkesi del secolo scorso che si snodano, guidate dalla potenza del sax, ad accompagnare la leggerezza distratta di Brooklyn, così come la seducente inquietudine di personaggi e vicende. Le scenografie di Andrea Taddei colpiscono nel segno. Frecce aguzze che arrivano dritte al bersaglio: i legni richiamano tristemente alla mente le baracche di Auschwitz, la testiera del letto della protagonista evoca la lapide di una tomba ebraica. Dura, fredda e immobile proprio come la vita di Sylvia. Eleganti e ricercati i costumi di Barbara Bessi.
Maurizio Donadoni, che interpreta il marito di Sylvia, Phillip Gellburg, e David Coco, che veste i panni del dottor Hyman, danno vita a performance di elevata ed evidente qualità artistica. Portano in scena due tipologie maschili di personaggi assai diverse, entrambe dominate, però, da una comune ambiguità caratteriale, da un disequilibrio interiore che li porta solo a intuire, mai a cogliere pienamente, le frustrazioni della donna. Completano il cast di uno spettacolo davvero centrato e convincente gli ottimi Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona e Serena Amalia Mazzone.
L’affetto davvero straripante tributato in questi giorni dal pubblico ad Elena Sofia Ricci all’Eliseo testimonia la geniale intuizione che ebbe in quel pomeriggio in cui quel libro la “chiamò”. La sua magnifica interpretazione ci riconcilia con il teatro d’autore e ci conferma la capacità di attrazione che questo genere ancora esercita sul pubblico. La sua Sylvia Gellburg ci regala sensazioni emotivamente forti, oltre a spunti di riflessione utilissimi a quanti volessero avventurarsi sulla strada di una seria analisi storiografica del Novecento. L’opera tutta appare pervasa da un’indagine psicologica approfondita, un’avvincente partita di ping pong tra Freud e Jung.
Su tutto campeggia un messaggio, ieri come oggi, di stringente attualità: un potente invito all’assunzione di responsabilità… Nei confronti di se stessi, della propria vita (personale e di coppia), della società.