‘Un Lupo al Museo‘ è il format, composto da dieci video destinati al web, ideati da Ugo Capolupo: gli episodi, ambientati in differenti spazi museali, raccontano l’universo culturale dell’archeologico in una nuova ed originale prospettiva. Raccontare la società attraverso l’arte, spingendo il visitatore a schierarsi ed a prendere posizione. Al Digital Media Fest, il festival creato e diretto da Janet De Nardis, la serie ha vinto il premio come ‘Miglior web serie a tema sociale‘ e andrà di diritto al Bogotà Webfest (LEGGI ANCHE: Digital Media Fest: tutti i vincitori dell’edizione 2020). Abbiamo intervistato per voi Ugo Capolupo.
In “un lupo al museo” vuole raccontare la società attraverso l’arte: come è nata l’idea di questa serie?
L’idea mi è venuta dopo una fortunata serie di esperimenti sociali che ho realizzato per fanpage.it, seguita da migliaia di giovani ragazzi. Ho pensato che nei musei italiani questo tipo di rottura avrebbe avuto un doppio significato: sia per il museo, in quanto istituzione, e sia per il pubblico dei social. Per il museo rappresenta sicuramente un avanzamento verso i nuovi linguaggi della rete, mentre per i giovani (e non solo), oltre alla curiosità dell’esperimento, avviene l’incontro con l’opera d’arte davanti alla quale rappresento l’esperimento. Ovviamente all’origine dell’idea, oltre alle battaglie sociali che mi spingono, c’è la voglia di raccontare le opere del nostro patrimonio culturale in un modo nuovo e di pubblicizzare a questa tipologia di pubblico la nostra storia, le nostre origini.
Ci racconti cosa sono gli “esperimenti sociali”…
Gli “esperimenti sociali” sono dei video che si realizzano con telecamera nascosta: si mette in scena un paradosso e si raccolgono pareri a caldo degli ignari passanti (o visitatori in questo caso), al contrario di un’intervista, la reazione che si ottiene è una reazione spontanea e di pancia. É un linguaggio molto diffuso tra i giovani della rete e vengono a volte definite Candid Camera, anche se le Candid Camera inscenano più uno scherzo, senza messaggio sociale. Il mio riferimento, prima di mettermi in gioco con questo linguaggio, è stato il programma della Rai del 1964 di Nanni Loy ‘Specchio Segreto’, per la prima volta in Italia arrivarono le così chiamate Candid Camera ma Nanni Loy, a parte quelle palesemente scherzose, includeva già in quella tipologia di nuovo linguaggio per l’epoca, un messaggio sociale, è quello che cerco di fare io con i miei esperimenti.
C’è qualche reazione che hanno avuto i visitatori dei musei che l’ha maggiormente colpita?
Mi capita sempre di essere colpito dalle reazioni delle persone, anche perché sono io a scatenarle. Una reazione in particolare che merita di essere raccontata è quella di una donna nel video del razzismo verso una ragazza islamica: lì metto in scena un razzista ignorante che dichiara che Alessandro Magno, fermando l’avanzata di Dario di Persia, ha impedito agli islamici di arrivare in Europa. La donna che ha reagito alla mia provocazione mi ha fatto notare che Maometto è arrivato 800 anni dopo quella battaglia, sottintendendo che alla base di tutti i razzismi c’è sempre un’ignoranza profonda.
Ha collaborato con numerosi registi cinematografici da Mario Martone a Gabriele Salvatores. Come mai negli ultimi anni ha deciso di sviluppare progetti sul web?
Ricordo che prima di passare al web ebbi non poche difficoltà. Essendomi formato con grandi registi, e avendo imparato un linguaggio cinematografico, fatto di immagini e tempi più lunghi, ho dovuto destrutturare quel linguaggio per acquisire una nuova forma più immediata e diretta. Una persona che non menziono mai nei miei curriculum, che però ha avuto una grande influenza nel mio percorso fino al web, è Carlo Cecchi, un vero maestro: è da lui che ho imparato questa immediatezza e autoironia che utilizzo nei miei video. Per rispondere alla domanda perché sono passato dal cinema al web? Perché ero stufo che i miei cortometraggi e documentari, nonostante partecipassero a numerosi festival, non li vedesse nessuno.
Sul web secondo lei c’è meritocrazia? Se sì, a cosa è dovuta?
É sicuramente il media più fresco degli ultimi 15 anni, e parliamo di meritocrazia per chi ha avuto l’intuito di mettersi in gioco anni fa, ma anche nel web ci sono aziende di produzione più strutturate e aziende che cominciano adesso e quelle più strutturate saranno sempre avanti. Il web ha il vantaggio di un rapporto diretto con il proprio pubblico, cosa che il cinema o la tv non hanno, ma come la tv e il cinema, il web è un amplificatore, e non è detto che la popolarità corrisponda a intelligenza, e il web tende ad amplificare molto spesso la superficialità.
Quanto sono importanti eventi come il Digital Media Fest per promuovere il lavoro di voi creativi?
Sono di enorme importanza festival come questo di Janet De Nardis: è importante il riconoscimento del proprio lavoro, non per la competizione in sé, non per dire che un lavoro è migliore di un altro, ma perché in un festival metti insieme con un criterio delle opere e degli autori, ed è stimolante per il pubblico e per gli artisti, scatena l’immaginazione. Questo criterio di mettere insieme delle opere attira chiunque sia disposto a un dialogo e un confronto, si parla di quel film, corto o video, e il passaparola è promozione. Noi che lavoriamo nel web viviamo del passaparola, i nostri video diventano virali per gli strumenti di condivisione, per i commenti e per l’interazione di un ‘mi piace’ e un festival contribuisce a questo passaparola.
Crede che i festival possano essere una risorsa anche online e per questo dovrebbero mantenere questa formula virtuale anche in futuro?
Spero innanzitutto che si possa tornare alla formula dal vivo o in presenza, come si suol dire. La pandemia che stiamo vivendo sta producendo anche degli anticorpi della creatività facendoci esplorare strade mai percorse, questo è positivo. Mi è piaciuta molto la formula online del Digital Media Fest, la divisione in blocchi del programma: quando vai a un festival sai che nella sala 1 c’è quella serie di corti, questo aspetto è stato rispettato dal festival, soltanto che ognuno di noi lo ha fatto da solo davanti a uno schermo mentre la premiazione l’ho vista comodamente in tv con la mia compagna e mia figlia. Questo tipo di formula virtuale ha bisogno anche del pubblico, della presenza fisica: quindi sì alla formula virtuale per il futuro, formula che permette anche ad un pubblico dall’altra parte del mondo di partecipare al festival, parallela a quella dal vivo e senza pandemia, e se ci sarà un pandemia per vent’anni allora la formula sarà sicuramente vincente.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Mi piacerebbe tornare al cinema, mantenendo però l’identità del mio percorso fino ad oggi, e mantenendo i linguaggi che ho sperimentato in questi anni, ma non so se un progetto del genere possa essere accolto dai produttori cinematografici, Intanto la mia mente continua a girare e un posto dove raccontare e potermi esprimere ce l’ho, ed è il web.