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“Rita”, l’arma dell’amore (recensione)

Rita segna il debutto di Paz Vega come regista e sceneggiatrice, un traguardo raggiunto dopo molti anni dall’inizio del progetto e un lungo casting per selezionare i bambini, che in questo caso sono attori non professionisti. Inoltre, il fatto che il film sia stato girato nei luoghi d’infanzia di Vega ne arricchisce ulteriormente la dimensione personale.

Sul rumoroso sfondo della legge sul divorzio in Spagna, vengono subito rappresentate le disparità sociali fra i ruoli di genere, che influenzano anche i due bambini protagonisti, Rita e il fratello Lolo, impegnati rispettivamente ad apparecchiare la tavola e a giocare. Tuttavia, nella loro purezza, essendo ancora tabulae rasae, esenti da convenzioni e stereotipi, i due creano nella loro dimensione infantile un ribaltamento dei comportamenti abituali: è la femmina, Rita, ad essere la più forte e a proteggere il fratellino.

In generale, la prospettiva infantile si rivela sempre la più congeniale per sciogliere le complessità del mondo e svelarne le dinamiche sociali. I bambini possiedono una visione elementare, diretta e nitida della vita e sono spesso in grado di distinguere il bene dal male meglio degli adulti. Un bambino a capo del mondo, forse, risolverebbe tutti i nostri problemi. La prova che la narrazione sia focalizzata sulla loro percezione si manifesta nel fatto che il male non viene mai esplicitamente mostrato: le scene di violenza, e in generale tutto ciò che i bambini non potrebbero comprendere, come una scena di sesso, rimangono fuori campo.

Il film introduce anche il tema della bellezza, unica arma riconosciuta alla donna dell’epoca, nella scena del ballo e del trucco, quando Rita è ospite della vicina. Quest’ultima si lascia andare a un discorso sulle donne, sostenendo che debbano odiare gli uomini, per poi cambiare tono quando inizia a parlare del suo nuovo compagno. Questo siparietto offre una sfumatura ulteriore sulle ideologie sociali, rivelando un’ipocrisia inconscia che spinge le donne a cercare costantemente un uomo e a rimanere subordinate.

La costruzione del personaggio del padre è magistrale, specie durante la sequenza in piscina: lo spettatore è in tensione costante, grazie soprattutto alle scelte registiche, aspettandosi che il bambino affoghi, si senta male, o che il padre possa causare un incidente al ritorno. Nulla di tutto questo accade, e il padre ne esce impunito, sottolineando ancora una volta come il peso delle responsabilità ricada sulle donne, mentre gli uomini appaiono come eroi, dedicandosi ai figli solo in contesti ludici.

Nel corso della storia, Rita sogna di andare in spiaggia, fino a immaginarla vividamente: la spiaggia viene mostrata come un luogo idilliaco e incontaminato, simbolizzato dal vestitino bianco che Rita indossa. Questa immagine paradisiaca riflette la sua innocenza e la sua inconsapevolezza del mondo di cui fa parte, il mondo che ospita la spiaggia dove un giorno, si spera, potrà andare davvero.

Nel finale, è come se Rita presagisse ciò che sta per accadere: si reca fuori e consegna il coltello – fin dall’inizio simbolico perché incapace di tagliare – al bambino, al “piccolo uomo”, al futuro. Proprio quel bambino che la madre non vedeva di buon occhio, forse perché vi proiettava il solo modello di uomo che conosceva. Lui le dà il coltello, ma lei lo restituisce, facendo intendere di preferire altro: la sua arma è l’amore. Rita riesce a convertire all’amore anche lui, consegnandogli un disegno. Il loro gesto è un atto di speranza, un passaggio di testimone.

La recensione è a cura di Mattia Croce, volontario della redazione di Alice nella Città.

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Guarda il trailer di “Rita”:

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