Medico veterinario, specialista in patologia e clinica degli animali da affezione, chirurgo dei tessuti molli e oggi direttrice clinica in Irlanda, Stefania Borroni è una delle voci più autorevoli e appassionate del corpo docente di ISAO (Scuola di Osteopatia Animale). Con un’esperienza ventennale nella cura degli animali e una profonda vocazione per l’insegnamento, collabora con la scuola dal 2022, offrendo agli studenti un bagaglio prezioso di competenze teoriche e cliniche.
Dall’anatomia all’etologia, dal pensiero critico al rispetto per l’animale-paziente, il suo approccio unisce rigore scientifico, empatia e dedizione. Borroni si racconta a Zoom Magazine, condividendo riflessioni, esperienze e quel “fuoco della curiosità” che guida ogni passo del suo percorso.
Il suo percorso professionale è ricco di specializzazioni e incarichi di responsabilità. Cosa l’ha spinta, nel tempo, ad affiancare alla chirurgia anche l’insegnamento e la divulgazione scientifica?
Penso che, almeno in parte, sia importante restituire ciò che abbiamo ricevuto, tramandando la conoscenza. Ho studiato e imparato molto, ho incontrato buoni e cattivi insegnanti, mentori e persone più esperte da cui ho appreso. A loro posso restituire poco, spesso nulla, ma posso trasmettere una parte di ciò che oggi so ad altre persone, con la speranza di stimolarle alla curiosità e al desiderio di porsi nuove domande, e quindi di continuare a imparare. Lo faccio volentieri nella mia pratica quotidiana, così come nei confronti di altre figure professionali a cui posso offrire un contributo.
Nella sua esperienza con ISAO, ha evidenziato come molte figure professionali a contatto con gli animali abbiano lacune nelle conoscenze di base. Quanto è importante, secondo lei, costruire solide fondamenta teoriche prima di affrontare la pratica?
Moltissimo. Con solide fondamenta, una “casa” può resistere a quasi tutto. È capitato in passato, e capiterà ancora, di imbattersi in nozioni nuove, complesse, talvolta persino sconvolgenti: avere una buona base teorica consente di sviluppare pensiero critico e vagliare le informazioni in modo consapevole. Inoltre, ci si sente meno smarriti. Spesso, soprattutto nelle professioni di cura, ci si trova di fronte a casi complessi, difficili da affrontare. Tornare all’anatomia, alla fisiologia, all’etologia, saper condurre una ricerca bibliografica scientifica: tutto questo può aiutare nel processo decisionale, e quindi nel prendersi cura del paziente.
Nel mio lavoro accade spesso, ed è di grande aiuto, così come lo è il confronto tra colleghi. A volte può sembrare che un veterinario, un infermiere o un osteopata debbano solo “fare”, trattare, risolvere. Ma quella è la parte visibile del lavoro, che arriva dopo un lungo processo decisionale fondato su conoscenze teoriche solide.

Insegna materie chiave come anatomia, fisiologia ed etologia. Come riesce a trasmettere ai suoi studenti l’importanza di questi saperi nella relazione e nella cura dell’animale-paziente?
È una domanda che mi sono posta prima ancora di condividerla con gli studenti. Ricordo bene lo smarrimento dei primi anni universitari. Cerco di aiutare chi è all’inizio del percorso a guardare avanti, verso la professione che intraprenderà, e quindi verso il senso profondo dello studio. Spesso inserisco riferimenti concreti a patologie frequenti, sottolineando l’importanza di conoscere a fondo la fisiologia e l’anatomia degli organi sani, prima di affrontare quelli malati. Questo aiuta a mantenere viva l’attenzione e stimola domande utili all’apprendimento.
Qualcosa che si è sempre avuto sotto gli occhi, all’improvviso assume un altro significato e nasce il desiderio di capire, di scoprire com’è fatto e come funziona: è meraviglioso. Una parte a cui tengo molto è insegnare a “leggere” gli animali, a capire come si sentono, se e dove provano dolore. Questo è fondamentale soprattutto per l’osteopata, che osserva e poi tocca il paziente. E può fare la differenza, anche nella prevenzione degli incidenti.
Ha assistito all’evoluzione della scuola ISAO negli anni. Cosa apprezza di più del suo approccio formativo e quali sono, secondo lei, i suoi punti di forza?
Apprezzo molto il suo approccio integrato: teoria, pratica, seminari. È un modello che trovo efficace e stimolante. La volontà di formare professionisti completi e competenti si vede nel tempo, con un percorso che arricchisce gradualmente le conoscenze e prepara concretamente al lavoro, al punto che uno studente, una volta terminato il percorso, può sentirsi davvero pronto.
La diversificazione dell’apprendimento è un altro punto di forza: il fatto, ad esempio, di unire la conoscenza del cane e del cavallo – spesso considerati mondi separati – crea connessioni, stimola la curiosità e promuove l’umiltà, qualità fondamentali in chi si occupa della cura degli animali.
Attualmente vive e lavora in Irlanda come chirurgo senior e direttore clinico. Cosa ha portato con sé dell’esperienza italiana e cosa sta imparando nel contesto internazionale?
Ho portato con me la curiosità, quella fiamma che consente di imparare sempre, da tutto e da tutti. Avevo bisogno di acquisire competenze a cui, per vari motivi, non avevo accesso in Italia. Il Regno Unito mi sembrava troppo complicato dal punto di vista burocratico, mentre l’Irlanda – che fa parte dell’Unione Europea – è stata una scelta quasi obbligata, anche per la lingua.
Ho risposto a un annuncio e, dopo qualche peripezia, sono arrivata qui. Vivere all’estero è diverso dal fare una vacanza: è stimolante ma anche difficile. Mi sono sentita accolta e apprezzata fin da subito, anche se ammetto di essere rimasta sorpresa quando mi è stato chiesto, da straniera e ultima arrivata, di ricoprire il ruolo di direttore clinico.
Ci sono alcune differenze rispetto all’Italia: l’approccio verso il personale, verso i clienti, e anche verso gli animali. Cani e cavalli vengono generalmente trattati con rispetto per la loro natura, e l’umanizzazione eccessiva è molto rara. Tuttavia, il concetto di fine vita è a volte diverso da quello a cui ero abituata, e può risultare difficile da accettare. Nel complesso, comunque, è un’esperienza molto positiva.
Il contatto diretto con gli studenti le manca, ma continua a insegnare online. Come riesce a mantenere viva l’interazione e l’interesse in una didattica a distanza?
Mi manca moltissimo. Negli anni passati abbiamo alternato lezioni in presenza e online, e per me era più semplice e gratificante. Dal vivo si capisce meglio se gli studenti stanno comprendendo, anche senza che parlino: si colgono la stanchezza, la noia, la curiosità. Le domande nascono più spontaneamente, si condividono le pause e ci si conosce meglio.
Quest’anno, per me, è impossibile rientrare spesso in Italia per insegnare. Con gli studenti che già conosco, il rapporto a distanza è più semplice: li sento comunque vicini. Con i nuovi, è un po’ più difficile. All’inizio dell’anno dedichiamo sempre qualche minuto alle presentazioni, per capire chi ho davanti, e durante le lezioni cerco di coinvolgerli con domande e spunti.
Lo spazio per le domande è fondamentale: non solo per verificare l’attenzione, ma per capire cosa è stato effettivamente compreso. Penso che il vero valore delle lezioni non sia solo trasmettere nozioni – che si possono studiare anche autonomamente – ma dare strumenti per interpretarle, comprenderle, legarle tra loro. Gli studenti rispondono bene a questo approccio, e spesso le domande sono molte. Spero che tutto questo, se non colma la distanza geografica, possa almeno ridurre quella umana.