Trasferendo idealmente poco più a sud la provincia in cui è ambientato il film, Il Signor Diavolo rappresenterebbe, geograficamente e narrativamente, il crocevia ideale tra le due ville diroccate che fanno da sfondo alle vicende narrate negli altri due capolavori horror rurali di Pupi Avati, La casa dalle finestre che ridono e L’arcano incantatore. Il ritorno al cinema de paura del regista bolognese è infatti un piccolo gioiello campestre che richiama, per l’ambientazione provinciale, le atmosfere cupe e sinistre del suo capolavoro del 1976, e per il tema sempre affascinante della superstizione e dell’influenza talvolta nefasta della religione del piccolo gioiello esoterico del 1996 interpretato da Stefano Dionisi e Carlo Cecchi.
Il Signor Diavolo del titolo, … perché alle persone cattive bisogna portare il dovuto rispetto, è il giovanissimo Emilio, secondo quanto narrato da Carlo, l’adolescente che lo ha ucciso con una fionda. Emilio avrebbe provocato infatti la morte di Paolino, migliore amico di Carlo, semplicemente per vendetta, senza però muovere un dito. Il pubblico ministero Furio Momentè viene inviato nel cattolicissimo Veneto in cui la Democrazia Cristiana domina incontrastata, con l’obiettivo di dimostrare che il piccolo Carlo ha agito per istinto, e non influenzato dalla comunità religiosa che lo avrebbe convinto dell’esistenza del Diavolo, celato proprio nella figura di Emilio. In poche parole, Momentè dovrà evitare che un caso di cronaca nera si trasformi in un vero e proprio terremoto politico.
Accanto ai protagonisti, tra cui spicca Gabriel Lo Giudice, ottimo nel rappresentare la triste desolazione di un uomo comune, troviamo una schiera di nomi noti che si affacciano discretamente ne Il Signor Diavolo per apportare un contributo onesto e difficilmente dimenticabile: Gianni Cavina, il sagrestano, Alessandro Haber, padre Amedeo, Lino Capolicchio, don Zanini (il numero di figure religiose, già essenziali negli horror precedenti del regista, è questa volta superiore a tutti i suoi precursori), Andrea Roncato, il dottor Rubei, Massimo Bonetti, il giudice Malchionda e, su tutti, una Chiara Caselli in stato di grazia che, in due sole scene, conferisce magistralmente il dolore e la furia di Clara Vestri Musy, madre della giovane vittima e potente signora di Venezia.
In un clima di tensione costante, accostato a sequenze di rara bellezza rurale e sporadiche discese negli inferi dell’orrore più puro, Pupi Avati ci regala ancora una volta una fiaba nera dove tutto non è (quasi) come sembra, dimostrandoci che a volte il Diavolo fa le pentole, e anche i coperchi.