Sabato 23 febbraio in esclusiva a Verissimo, il regista Fausto Brizzi rompe il silenzio con la sua prima intervista televisiva rilasciata a Silvia Toffanin.
“Bisogna sempre e comunque mantenere l’ironia perché ti salva. Ma alla fine un calcio nel posteriore aiuta a resettare la propria vita in meglio, a guardare meno volte il telefonino e a fare in modo che le persone a cui vuoi bene, stiano bene”.
A Silvia Toffanin, Brizzi, nonostante la risonanza che ha suscitato il suo caso, racconta di come è riuscito comunque a scrivere e dirigere il suo ultimo film, “Modalità aereo”. Una pellicola dai tratti esilaranti ma anche autobiografici e profondi: “È stato un anno complicato, in cui il mio obiettivo era trovare l’umore giusto per scrivere un film divertente e “Modalità aereo” lo era. Quando Paolo Ruffini me l’ha portato ho capito che era terapeutico: era la risposta pop a tutto quello che mi stava succedendo. E il lavoro è stato una cura”.
Un anno turbolento che gli ha però permesso di capire la forza degli amici veri e di eliminare dalla sua vita chi non lo era: “La vera terapia di quest’anno è stata circondarmi di persone che mi volessero bene. Questa cosa mi ha permesso di passare da duemila a cento numeri sulla rubrica del cellulare. Improvvisamente capsici chi sono le persone superflue e quelle fondamentali. È stato un periodo un po’ rocambolesco in cui sfuggivo ai giornalisti e in cui molte persone, che pensavo semplici conoscenti, invece mi hanno dato le chiavi della loro casa in caso di emergenza. Giravo con le chiavi di una quindicina di abitazioni sparse in tutta Italia anche perché i miei amici mi volevano vedere in casa”. Tra queste persone troviamo sicuramente Paolo Ruffini, amico di vecchia data e protagonista del suo ultimo film: “Paolo l’anno scorso ha realizzato un documentario bellissimo sulla Resilienza, che io quest’anno ho imparato. Significa fare in modo che un evento negativo possa diventare positivo. Non bisogna scoraggiarsi davanti a una difficoltà apparentemente insormontabile perché la puoi fronteggiare, aggirare e trasformare in qualcosa di buono. Il percorso è complicatissimo e il documentario di Paolo parla proprio di questo atteggiamento. È stata una delle persone che più mi è stata vicina in quest’ ultimo periodo, con mia madre, Claudia, gli amici e la mia bimba di tre anni”.
Infine, il regista romano torna anche su una frase detta qualche tempo fa, secondo cui in Italia un’accusa è già di per sé una condanna: “Questo è un malessere diffuso nel nostro Paese per cui sembra che la gente non voglia vincere qualcosa o avere una fortuna, ma vedere una sfortuna degli altri. Basta leggere i giornali per vedere che sono solo le notizie tragiche che ci interessano: quelle buone sono relegate in un trafiletto. Se una persona viene accusata di una cosa gli viene data una certa rilevanza, se poi la persona viene assolta gliene viene data un’altra”.