Uno delle accoppiate più forti dell’immaginario moderno è, certamente, quella costituita da donna e melodramma.
Per tentare di descrivere l’essenza di questo legame – che fonda le sue radici nel teatro francese nel XVIII secolo e arriva fino al cinema popolare italiano degli anni Cinquanta (volendo fissare un limite, ma in realtà si tratta di una tendenza che travalica ogni barriera spaziale o temporale) – si potrebbe utilizzare la formula “imprescindibilità di genere”, sfruttando la polisemia di un termine (genere, appunto) che si estende dalla dimensione retorica a quella, molto più scottante, del gender: il melodramma è, da sempre, il regno delle donne senza voce, eroine lacrimose che non riescono a raccontarsi fino in fondo e che restano, quindi, letteralmente “sconosciute” all’interno delle loro storie.
È a questo ideale mito transmediale di sorellanza che si rivolge il libro La voce delle donne. Le sconosciute del melodramma, da Galatea a Lucia Bosè (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2018) in cui l’autrice, Simona Busni, indaga sulle principali forme melodrammatiche attraverso una serie di ritratti filosofici al femminile: dalla Galatea protagonista del primo melodramma della storia (il Pygmalion di Jean-Jacques Rousseau) ai personaggi dei film di Lattuada, Matarazzo e Antonioni (interpretati da dive come Silvana Mangano e Lucia Bosè), passando per le donne sconosciute che popolano il cinema americano degli anni Trenta e Quaranta, il teatro di William Shakespeare e l’Opera lirica.
Nonostante il melodramma non contempli mai un vero e proprio lieto fine, queste storie non parlano solo di sconfitta, ma ci riconsegnano piuttosto una modalità di rivendicazione esistenziale che ancora oggi rappresenta un modello con cui noi spettatori cinematografici siamo chiamati a confrontarci.
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