E’ indubbiamente uno dei pianisti e compositori più interessanti che il jazz italiano abbia espresso in questi ultimi anni. Un talento, quello di Marco Apicella, che ben presto ha travalicato i confini nazionali portandolo in giro per l’Europa fino a Los Angeles, dove attualmente vive.
Marco Apicella si racconta a Zoom Magazine.
Come nasce la tua passione per la musica?
Ricordo di aver avuto sin da piccolo una forte attrazione per il piano. Nessun membro della mia famiglia è mai stato musicista di professione, ma avevo uno zio che suonava il piano e cantava le canzoni della tradizione popolare italiana e napoletana. Mio padre poi, a detta di tutti, era un gran bravo cantante… inoltre mi stupisce tutt’oggi il suo fischio che è veramente molto intonato (ride, ndr)! Ma la vera ispirazione è stata decisamente un’altra: mio cugino Alessandro, il quale suonava il piano e studiava al conservatorio di Roma. Ricordo che ogni volta che si organizzava un pranzo a casa dei miei zii, la prima cosa che volevo fare era correre nella stanza del piano e semplicemente toccarlo, spingere quei tasti e sentirne fuoriuscire il suono. Poi ovviamente il momento clou della giornata arrivava quando, dopo pranzo, Alessandro era implorato da tutti noi di suonarci qualcosa. E quel qualcosa che suonava era a dir poco strabiliante: le composizioni più belle ed impressionanti di Chopin, Liszt, Rachmaninov e chi più ne ha più ne metta. Le mani volavano su quel piano e la musica mi avvolgeva completamente. Non potevo fare altro che rimanere stregato a guardarlo suonare pensando: “Devo imparare a suonare il piano”. E così, un bel giorno quando avevo 9 o 10 anni, decisi che il momento era arrivato e cominciai ad implorare mia madre di mandarmi a scuola di pianoforte. Avevo già anche chiesto a dei compagni delle elementari e trovato una scuola vicina alla quale iscrivermi. Lei ovviamente non se lo fece dire due volte e così iniziai a studiare musica. Ovviamente a quei tempi non avevo idea che sarebbe diventata la mia professione, ma sapevo che sarebbe stata parte della mia vita in ogni caso.
I dischi che hanno maggiormente influenzato il tuo percorso musicale?
Ce ne sono molti e molto diversi fra loro. Da piccolo ero innamorato del rock. Ascoltavo “Made In Japan” dei Deep Purple ogni giorno, più volte al giorno. Stessa cosa con i primi quattro dischi dei Led Zeppelin. Facendo ricerche sui membri di queste band poi scoprivo altri gruppi di cui facevano parte. Cosi ho scoperto i Whitesnakes e i Rainbow, che erano nati dalla congiunzione di membri dei Deep Purple con altri musicisti rock. E cosi avvenne la transizione dal rock all’hard rock. Poi il metal con Ronnie James Dio e gli Iron Maiden. Come tutti i bambini cresciuti negli anni 2000, non facevo altro che scaricare illegalmente musica da internet, e creavo le mie proprie playlist con i miei pezzi preferiti di ogni gruppo, quindi in quel periodo pochi dischi interi. Ad un certo punto però scoprii una delle band che più mi hanno influenzato musicalmente: i Dream Theater. La loro musica era estremamente complessa (cosa che ricercavo disperatamente in quel periodo) ma anche molto melodica, e la maggior parte dei loro dischi erano ‘concept album’, quindi era indispensabile ascoltarli nella loro interezza. “Scenes From A Memory” fu uno dei dischi che ascoltai di più, seguito da “Metropolis Pt. 2“, “Octavarium“, “Train Of Thoughts“, e in generale tutta la loro discografia… come sempre scaricata illegalmente con eMule (ride, ndr). Un giorno, poi, ricordo che mio padre tornò a casa con un disco e mi disse “tieni, so che ti piace anche il jazz. Questo è un disco jazz”. Mio padre non aveva idea di cosa fosse il jazz e a dir la verità nemmeno io, ma sulla copertina del disco c’era scritto “jazz”, quindi magari valeva la pena ascoltarlo. Lo misi nello stereo e lo ascoltai. Primo pezzo, “no non mi piace, cambiamo”. Secondo pezzo, “no neanche questo, prossimo”. Terzo pezzo “questo disco fa schifo, basta”. Lo tolsi dallo stereo e lo lasciai nel suo cofanetto a prendere polvere per anni mentre ascoltavo il mio rock e metal. Nel frattempo però scoprii il funk e la musica fusion. David Sanborn fu il vero e proprio anello di congiunzione o anello mancante nella catena. Era musica complessa, era melodica, era ritmata, c’erano armonie mai sentite prima d’ora, e il suono del sax mi intrigava da morire. A “Change of Heart“, “Double Vision“, “Another Hand“, furono alcuni dei dischi di Sanborn che più ascoltai. Quello che non sapevo era che quella musica stava preparando le mie orecchie a quello che sarebbe avvenuto dopo. Mi abituai ad ascoltare e capire le sonorità di quella musica che era un diretto discendente del jazz degli anni ’60 e ’70. E cosi le mie orecchie si aprirono a nuovi orizzonti. Un po’ per caso poi un bel giorno mi cadde l’occhio su quel disco che mio padre aveva portato in casa anni prima. Pensai “magari è ora di dargli una seconda possibilità”. Lo ascoltai, e quel disco mi cambiò la vita. Era “The New Standard” di Herbie Hancock, senza dubbio il disco che ha avuto l’impatto più grande sulla mia formazione musicale. Da quel momento in poi per anni, e non sto esagerando, ascoltai praticamente solo quel disco. Conoscevo così bene ogni piccolo dettaglio che quando lo ascoltavo ormai ero in grado di cantare gli assoli di ogni strumento, inclusi quelli di batteria! Quel disco spalancò la finestra sul mondo del jazz, mondo che semplicemente non ero pronto ad apprezzare prima. Da lì iniziai a studiare piano jazz e ad appassionarmi a questa musica, fino a che decisi che era quello che volevo fare.
Vivendo all’estero, musicalmente parlando, quali sono state le principali differenze che hai riscontrato con il Bel Paese?
La mia impressione è che, almeno per quanto riguarda il jazz, ci sia un minore interesse da parte del pubblico in Italia rispetto ad altri paesi. Appena nomini la parola “jazz” in Italia vieni etichettato come snob, come qualcuno che ti vuole far pesare il fatto che i suoi gusti musicali sono più raffinati dei tuoi. Il pubblico ha semplicemente meno familiarità con il genere e non riesce ad aprirsi alla possibilità che ci sia qualcosa di interessante e bello in esso. All’estero poi c’è molto più rispetto in generale per la musica live e i musicisti. Per esempio in città come Amsterdam o Rotterdam ci sono una miriade di eventi con musica live ogni sera, cosa che a Roma non succede. Si preferisce magari avere un DJ che mandi le solite canzoni che si sentono e si risentono già alla radio tutti i giorni.
La soddisfazione professionale più importante finora ottenuta?
Nel 2017 ho avuto l’onore di esibirmi con il mio progetto originale “Marco Apicella Trio” su uno dei palchi più importanti d’Europa, il North Sea Jazz Festival: fu un’emozione grandissima ed un’esperienza surreale. Ricordo che sul palco, accanto a quello dove ci esibivamo noi, c’era in contemporanea il concerto di Erykah Badu, incredibile ritrovarsi a far parte di un programma che include mostri sacri del genere. Inoltre durante la stessa edizione del festival ero parte del collective Dutch Music Community, con il quale eravamo band ufficiale dell’after party del festival. In quell’occasione ebbi l’onore di suonare, insieme alla Dutch Music Community, con Marcus Miller, che per chi non lo conoscesse è probabilmente uno dei migliori bassisti di tutti i tempi, oltre che ad essere un mio idolo personale e bassista di David Sanborn.
Con quale spirito, oggi, guardi al futuro?
Con molto ottimismo. So che siamo tutti molto scoraggiati a causa degli ultimi avvenimenti legati al Covid-19, ma personalmente sono sicuro che riusciremo a metterci alle spalle tutto questo e tornare alla normalità. In un anno o due non sarà altro che un brutto ricordo, e in più avremo imparato molto dalle esperienze fatte durante la quarantena. Io personalmente sto cercando di adattare i miei progetti e di dargli un’impostazione che renda possibile la collaborazione in remoto. D’altronde ho già collaborazioni attive con artisti che sono dall’altra parte del mondo, e le studio session remote sono ormai all’ordine del giorno. La tecnologia rende possibile tutta una serie di interazioni come condividere schermo e addirittura audio del computer, il che rende l’esperienza paragonabile ad una vera sessione di registrazione. Insomma l’essere scollegati ci sta insegnando come collegarci in maniere alternative, e credo che alla lunga questo porterà una serie di benefici che miglioreranno la nostra di tutti i giorni.