Per il Decreto Rilancio non si placano le polemiche e aumentano le perplessità. In particolare quelle riguardanti il tema degli ammortizzatori sociali, soprattutto dopo la drammatica esperienza della cassa integrazione della prima fase, che ha visto migliaia di lavoratori ancora in attesa dell’indennità per il mese di marzo.
Sull’argomento abbiamo interpellato Nino Carmine Cafasso, Giuslavorista, Consulente del Lavoro e Presidente AIS, Associazione Imprese di Servizi.
Dottor Cafasso, dopo un susseguirsi di decreti mai nati, prima aprile poi maggio, adesso finalmente abbiamo il Dl Rilancio. Ci spiega cosa accadrà?
Con il cosiddetto Dl Rilancio è stato stabilito che le aziende che hanno già usufruito di 9 settimane di cassa integrazione ne hanno a disposizione soltanto 5 utilizzabili entro il 31 agosto. La cosa più grave è che si continua a non fare bene i conti perché se la cassa integrazione, per chi ha iniziato a utilizzarla il primo marzo, è scaduta il primo maggio, e queste 5 settimane scadranno il 31 maggio, questo significa che giugno, luglio e agosto rimarranno scoperti, e che per le aziende che hanno ripreso l’attività il 18 maggio, improvvisamente, la pandemia, e anche la crisi economica, saranno scomparse già il primo giugno: tutti saranno soddisfatti e contenti e si ricomincerà a vivere come si viveva 3 mesi fa! Purtroppo non è così, e così non potrebbe essere.
E allora perché è stato fatto tutto questo?
Lo spiego tecnicamente. L’ammortizzatore sociale legato al Covid-19 è un ammortizzatore sociale speciale in ragione del quale esistono delle deroghe. Queste deroghe sono legate al pagamento di una serie di contribuzioni che sono oggi obbligatorie sull’ammortizzatore sociale, ma che nel caso della lex specialis in tema di Covid-19 erano state eliminate. “Loro” cosa hanno pensato: noi concediamo altre cinque settimane, dopodiché gli imprenditori, se riterranno, utilizzeranno l’ammortizzatore sociale ordinario. Quest’ultimo, però, è un ammortizzatore sociale che, all’imprenditore, costa tra il 4 ed il 12 per cento della retribuzione persa.
Cosa succederà quindi?
Su quello ordinario c’è chiaramente una condizione di svantaggio da parte dell’imprenditore, che dovrà riunire le organizzazioni sindacali, concordare con esse tutta una serie di particolarità, che peraltro risultano essere oggettive, poiché riaprendo il 18 maggio, il 31 maggio, ovvero alla scadenza delle 5 settimane, non ci si troverà certamente nelle stesse condizioni in cui si era il 31 gennaio scorso. E a quel punto si dovrà gestire una procedura ordinaria, che in un momento come quello che stiamo vivendo significa, fondamentalmente, essere obbligati ad anticiparla. A tanto non possono non aggiungersi le lungaggini burocratiche legate ad una norma che con il Covid-19 era stata derivata ed il fatto, assolutamente importante, che le aziende che semmai in passato avevano già avuto necessità e nel quinquennio, di utilizzare l’ammortizzatore sociale ordinario, potrebbero averne esaurito la carenza tanto da non poterla assolutamente utilizzare! Il Governo, quindi, si è di fatto defilato lasciando la “patata bollente” agli imprenditori che, se vogliono utilizzare l’ammortizzatore sociale e laddove potessero stante quanto prima espresso, hanno a disposizione esclusivamente quello ordinario, e lo devono anticipare. Prendiamo atto che esiste una condizione straordinaria, dettata dalla pandemia, e non certo dal Governo, nella quale le persone non possono lavorare in regime di normalità. Di conseguenza, però, lo Stato è deputato a creare le condizioni dove l’imprenditore non debba essere costretto ad anticipare denaro, perché non in grado di anticiparlo. Dopo un Decreto Liquidità che è rimasto, sostanzialmente, una carta morta, poiché quei soldi non li ha visti nessuno, e avendo poi creato una procedura tale, con un Decreto Cura Italia, per cui, a oggi, questo denaro non lo ha visto quasi nessuno, oggi non è inaccettabile aggravare ulteriormente la situazione chiedendo di anticipare denaro quando sia lo Stato, sia l’INPS, sarebbero dovuti intervenire in tempo, e non lo hanno fatto. Pensando poi di semplificare la procedura ribaltando sull’INPS tutte le responsabilità del caso che erano prima condivise anche con le Regioni. Attenzione, è come il cane che si morde la coda perché l’INPS, negli ultimi 20 giorni, non ha di certo assunto 10mila lavoratori! I lavoratori dipendenti dell’INPS sono sempre gli stessi, e se questi non sono riusciti prima, lavorando insieme alle Regioni, a risolvere la situazione, di certo non lo faranno adesso, gravati dell’ulteriore carico di lavoro proveniente dalle Regioni stesse. In sostanza questo è un decreto che, almeno dal punto di vista delle procedure del lavoro e della salvaguardia delle imprese, risulta assolutamente deprimente, defraudante e sostanzialmente insufficiente per la grave crisi che si vive e soprattutto per lo spessore che le imprese italiane offrono e potrebbero offrire se salvaguardate ma anche del tutto non in linea con i principi cardine di uno stato sociale e di diritto.
Lei si è fatto portavoce di numerose battaglie, quali quella indirizzata al settore dell’artigianato (Problema FSBA) e l’altra dedicata ai lavoratori stagionali, solo per fare qualche esempio. Problematiche che sembrano aver trovato una positiva soluzione. Cosa si è riusciti a ottenere?
In entrambi i casi, per fortuna, le nostre battaglie hanno avuto esito positivo. Per quanto riguarda gli artigiani, il Fondo Solidarietà Bilaterale dell’Artigianato (FSBA) in un primo momento aveva legiferato difformemente al DL “Cura Italia” obbligando i datori di lavoro al vincolo associativo, e invitandoli a regolarizzare la propria adesione, successivamente all’invio della domanda, azione non prevista dal Decreto “Cura Italia” e dall’articolo 39 della Carta Costituzionale. Costringendoli in tal modo a non poter inviare le domande di CIG, e rallentando ancor di più i processi di erogazione in favore dei lavoratori. Ci è voluta una sentenza del Tar del Lazio che ha obbligato l’Ente nazionale bilaterale per l’artigianato e il Fondo solidarietà bilaterale dell’artigianato a consentire senza indugio la presentazione della domanda di concessione dell’assegno ordinario di integrazione salariale e a dare una svolta positiva a questa situazione. La figura del lavoratore stagionale per come era stata definita dal Cura Italia, veniva salvaguardata in quanto tale e non perché inserita in un contesto aziendale, per forza avente i requisiti della stagionalità. Di conseguenza le Sedi INPS, in maniera del tutto discutibile, non si erano e ad oggi purtroppo direi non si sono regolate con univoco comportamento, lasciando la gestione di queste pratiche a personali interpretazioni non sempre in linea con la norma. Con il risultato che migliaia di lavoratori non sono stati pagati e, soprattutto, migliaia di lavoratori che, avendo lavorato anche un solo giorno nel 2020, sono stati ritenuti non destinatari del bonus. Anche in questo caso le iniziative intraprese per scongiurare tale ingiustizia hanno dato i loro frutti. Il DL Rilancio recita infatti che “Ai lavoratori dipendenti stagionali del settore turismo e degli stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e il 17 marzo 2020, non titolari di pensione, né di rapporto di lavoro dipendente, né di NASPI, alla data di entrata in vigore della presente disposizione, è riconosciuta un’indennità per il mese di maggio 2020 pari a 1000 euro”.
Qualcosa, da qualche parte, si è mosso finalmente, anche se rimangono le altre lacune.