Con il suo viso e gli occhi grandissimi si è fatta notare da Cyrus Nowrasteh che l’ha voluta nel ruolo di Maria di Nazareth nel film “The Young Messiah”. Una carriera sempre più in ascesa per Sara Lazzaro che dopo aver preso parte a “The Young Pope” di Paolo Sorrentino e, più recentemente, alla serie tv “Volevo fare la rockstar” e a “18 regali” al cinema, si gode il successo di “Doc – Nelle tue mani”, il medical drama di Rai1 con Luca Argentero che domani sera vedrà andare in onda l’ultima puntata di questa stagione.
Nella fiction, che sta registrando ascolti record, l’attrice italo-americana interpreta Agnese, ex moglie del protagonista Andrea Fanti e direttrice sanitaria dell’ospedale. Concreta, acuta e diretta, Sara Lazzaro racconta a Zoom Magazine questa nuova sfida affascinante.
Sara, Agnese è un personaggio dalle mille sfaccettature: come ti sei preparata?
Agnese per me è una donna complessa e stratificata: forte e determinata ma anche fragile e per certi aspetti ancora irrisolta. Un’equilibrista, tra passato e presente. Il mio punto di partenza, come sempre, è stata la sceneggiatura: il percorso di questo personaggio, il suo arco, dal primo all’ultimo episodio di questa stagione. Per avvicinarmi ai personaggi che interpreto per me è molto importante conoscere il disegno dei suoi movimenti, interni ed esterni, per poi potergli dare corpo.
Per Agnese, come altri miei colleghi, ho fatto alcuni giorni di training al Policlinico Gemelli di Roma per avvicinarmi in modo più empirico al mondo ospedaliero, universo centrale di tutta la nostra serie. Sono stati giorni molto importanti e significativi per tutti. Sotto la guida del Prof. Landolfi abbiamo trascorso alcune giornate nel reparto di medicina interna per conoscere da vicino i meccanismi del reparto, le procedure, le gerarchie e annusarne un poco l’atmosfera. Ho avuto modo di relazionarmi anche con alcune figure amministrative dell’ospedale, visto che il ruolo di direttrice sanitaria che ricopro nella fiction è uno dei pochi “non in corsia”. Mi sono soffermata soprattutto a voler conoscere le donne dell’ospedale, visto che nella serie sono una delle portavoce dell’emisfero femminile – per me era un ingrediente fondamentale e una sfumatura da non sottovalutare nel voler raccontare una donna inserita in questo ambiente.
Com’è stato calarsi nei panni di una donna anagraficamente più grande di te?
È la prima volta che mi viene affidato un ruolo del genere e anche questa è stata una bella sfida: trovare un peso specifico diverso, un portamento (informato anche da un ruolo di potere, certo), un modo di stare, un timbro più pieno e basso… E ad accompagnarmi in questo, il lavoro dei reparti (trucco, acconciature e costumi) è stato fondamentale per me: parte della mia preparazione quotidiana includeva anche un lieve effetto speciale di invecchiamento sugli occhi. Non ho molto in comune con Agnese, ma attraverso di lei ho conosciuto delle cose nuove di me stessa.
Una donna emancipata e di potere: a che punto credi sia arrivato questo importante processo nella nostra società e, soprattutto, nell’ambiente artistico?
Posso dire che il processo è iniziato ma c’è ancora molta strada da fare. Penso che una cosa fondamentale sia anche distinguere (e distanziare) l’idea di “emancipazione” dal concetto di “emulazione” del mondo maschile. Sono due cose ben diverse, e il fraintendimento contamina il processo stesso. È uno dei concetti che ho voluto portare avanti anche con Agnese: un personaggio di potere e autorità, in un ambiente prevalentemente maschile, che però non rinuncia alla propria femminilità. Riesce ad essere entrambe le cose; portare il proprio essere donna, non è un punto di debolezza, ma di forza e d’identità.
Il divario (sia di possibilità che remunerativo) è ancora tanto ampio. C’è molto più lavoro per gli uomini, e le loro carriere hanno più possibilità di crescere man mano che invecchiano e maturano, al contrario di noi donne. Bisogna scardinare dei processi profondi e radicati, che però sono culturali. Ad oggi le principali storie che vengono raccontate sono “maschili”, sia di volto che di penna, sia per soggetto che per punto di vista. Le figure femminili sono inserite come un elemento che orbita attorno ad un uomo. C’è un universo femminile inesplorato, e non rappresentato, che attende di “ri-conoscersi”. Spero che nel tempo del mio percorso e della mia carriera io abbia modo di spingere verso questa direzione e di contribuire, nel mio piccolo, a questo cambiamento.
Quali sono, secondo te, i punti di forza di Doc?
In primis la storia. La storia vera di Pierdante Piccioni ha dell’incredibile, il primario di Lodi che in seguito ad un incidente perse 12 anni di memoria. Sono d’accordo con i nostri sceneggiatori: se non fosse tratta dalla realtà, bisognava inventarla! Questo è stato da sempre il seme di questo progetto, il motivo centrale per cui si volesse raccontare questa storia e il motore centrale di tutta la narrazione. Questa efficacia è poi trasposta nella sceneggiatura, spina dorsale solida per tutto il progetto.
In secondo luogo, il modo in cui si è voluta raccontare questa storia. Tutto, dalla regia, la fotografia, il montaggio… si spingono in una direzione nuova, con dei ritmi diversi e innovativi, facendo emergere, in modo chiaro e mai didascalico, anche i valori e il forte messaggio di umanità che sorreggono tutta la nostra narrazione.
Quali sono state le scene più difficili da girare?
Personalmente credo quelle in cui dovevamo raccontare una malattia, un dolore o una perdita. Sono temi molto delicati a cui tutti noi siamo sensibili, per vicinanza o per storia personale. Dover ricreare certe situazioni comunque ti investe di una responsabilità, diventi portatore di un’esperienza che magari è stata vissuta realmente da qualcuno che ci sta guardando. Per me sono sempre momenti delicati e importanti.
Recitare è una scelta professionale o di vita?
La mia scelta professionale ha definito la mia vita. Ha definito la geografia, le scelte, gli affetti, il tempo e le economie del mio percorso, in “toto”. Forse il mio approccio alla professione può essere visto come una scelta di vita. Sono sempre stata attratta dall’arte, sin da piccola. Sapevo da sempre che sarebbe stata la mia strada. Cominciò tutto dal disegno, spaziando nella musica per poi arrivare all’arte performativa. Ma onestamente non so se questo è il mio punto di arrivo. La ricerca non smette mai.
Un episodio divertente che ti è capitato su un set?
Incontrare all’alba, nel camper trucco e parrucco di “The Young Pope” di Paolo Sorrentino, il sex-symbol Jude Law esattamente quando mi stavano raccogliendo i capelli e inserendo un collant in testa tagliato in punta per preparare la mia calotta per il velo da suora, rigorosamente senza trucco dopo una notte insonne: che tempismo. Lui si presentò: “Hello, I’m Jude”. Gli strinsi la mano: “Nice to meet you, Sara. And I am a teletubbie.” Divertito, sorrise… da lì tutto andò in discesa.
Sulla bio dei tuoi social ti definisci “Visual Thinker”.
Esatto, ho una mente che funziona molto per immagini. Sia per comprensione che per espressione.
Come stai passando la quarantena?
In questa quarantena ho ripreso in mano la matita e ho ricominciato un poco a disegnare, ammetto che non lo facevo da molto. Ho ripreso anche la chitarra ma meno di quanto avrei immaginato. Cerco di far regolarmente yoga, mangiare sano e accorciare le distanze videochiamando la mia famiglia e gli amici stretti. Anche le serie e i film non mancano! Come la promozione da casa per “Doc – Nelle tue mani”.
Un libro e una canzone che hanno caratterizzato questo tuo periodo?
Sto rileggendo “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke e sto riscoprendo Bob Marley.
di Sacha Lunatici